Quando nei primi anni dell’Ottocento l’ingegner Carlo Donegani ricevette incarico dall’imperatore Francesco II d’Asburgo-Lorena di tracciare una strada carrozzabile a collegamento del Contado di Bormio con il Vinschgau, i due versanti erano province dello stesso impero. Donegani era bresciano, aveva studiato a Roma e a Bologna e si era esercitato come ingegnere stradale nella Marca Anconitana durante il dominio francese. Rientrato in Lombardia firmò e realizzò i progetti delle strade che ancora oggi disegnano la dorsale dell’immaginario turistico montano in Lombardia: la Lecco-Colico a oriente del lago di Como e la sua prosecuzione fino a Chiavenna, e da lì alle praterie dello Spluga per poi scendere in Svizzera. E, appunto, lo Stelvio.
L’imperatore desiderava aprire un passaggio carrozzabile a sud dei transiti storici in territorio elvetico (ancora oggi la strada dell’Umbrail è il collegamento più breve tra le due Perle, sebbene di poco). All’impresa si opponeva però la muraglia dell’Ortles-Cevedale, che qui aveva diviso l’Europa in tre mondi diversissimi per lingua e cultura: i Grigioni romanci, l’italiana Valtellina e il Tirolo tedesco. Se violare quel confine fa ancora oggi tremare i polsi, possiamo solo figurarci lo spirito di chi per primo, duecento anni fa, vi tracciò un percorso tra le rocce. Scriverà il Donegani:
Le fatiche sostenute, gli sforzi sofferti ed i pericoli corsi in quelle indagini ed operazioni di dettaglio, si possono ora appena immaginare da coloro che col visitare attentamente le valli del Braulio e dello Stelvio, hanno campo di formarsi qualche idea dello stato loro, prima dell’aprimento della strada.
Per dare l’attacco al massiccio si mobilitarono eserciti di operai specializzati che lavoravano con muli, picconi e polvere da sparo trasformando quei paesaggi silenziosi e deserti in un cantiere brulicante:
Nel massimo calore dei lavori, vero sorprendente spettacolo, appariva dall’alta vetta dello Stelvio il formicolare lungo la valle di quella grande massa di lavoratori, e più ancora sul far della sera lo scorgere un immenso numero di focolari e di fiaccole resinose listare dalle tende qua e là sparse, non che l’udire in pari tempo lo scoppiar delle mine che veniva gradatamente ripetuto dall’eco, lungo quella catena di monti.
Nel 1859, con la cessione della Lombardia al Regno di Sardegna, il passo tornò a segnare un confine anche nazionale, salvo poi farsi teatro della guerra che nel 1918 segnò la dissoluzione della millenaria potenza austriaca e il passaggio dell’Alto Adige all’Italia. Da allora è di nuovo un valico interno: il più alto di Italia e il secondo più alto d’Europa (2757 m), di soli 13 metri più basso del Col de l’Iseran (2770 m) sul confine italo-francese.
Percorrendo oggi le due valli che si incontrano su queste vette è difficile immaginare che qui per secoli si sono incrociati commerci di uomini, di beni e di eserciti così importanti da giustificare la realizzazione e la manutenzione di quest’opera immane. Soppiantate dai più comodi e meno poetici passaggi autostradali, l’Alta Valtellina e l’Alta Val Venosta si sono ritirate alla periferia di un mondo frenetico, benedette da una natura maestosa e da catene di monti che non proteggono più i confini, ma paesaggi ed ecosistemi di straordinaria bellezza.
Da Malles…
Da Malles si imbocca la statale SS40 fino a Prato allo Stelvio all’«incontro con la postale di Mals» (Donegani) per risalire a ovest lungo la SS38. Qui la Val Venosta, scendendo dal Passo Resia e dalle sorgenti dell’Adige, svolta a oriente per portare le acque del fiume fino a Merano, che da lì riprenderanno a scendere fino alla pianura e al mare di Chioggia. Già a 900 m di quota, Prato è l’ultimo comune agricolo della valle dove ancora, grazie alla protezione dei massicci circostanti e alle bonifiche asburgiche del ‘700, si potevano coltivare mele e frumento. Da lì in poi ci sono solo 20 km per guadagnare i restanti 1800 m di elevazione.
La salita si fa più decisa e la valle più stretta. La strada si porta diritta ai piedi di un muro di boschi e rocce apparentemente invalicabili. In vetta si intravede il ghiacciaio. Dopo Gomagoi si arriva a Trafoi (1570 m), il villaggio natale di Gustav Thöni. Da qui attacca la serie infinita dei tornanti veri e propri: dapprima nelle foreste di abeti del Parco Nazionale, fittissime e dagli aghi scuri, quasi neri, che verso i 2000 m si diradano velocemente per lasciare posto ai cespugli e alla nuda roccia su cui si innesta l’ultima parte del tracciato, la più ardita e leggendaria. Gli ultimi tornanti, sempre più ripidi e stretti, sono costruiti, non scavati, nel muro di pietra che pende quasi perpendicolare sulla valle. Lungo l’asfalto non è raro imbattersi in squadre di operai che mettono continuamente in sicurezza questo fragile manufatto appeso alla montagna.
Il Passo
Raggiunta la vetta, si apre allo sguardo un paesaggio surreale e per molti versi bizzarro. È subito evidente che qui la natura non si è mai rassegnata alla presenza dell’uomo. Nonostante un’urbanizzazione fin troppo generosa e a tratti violenta, l’insediamento umano appare precario come il campo base di una spedizione tra i ghiacci. Non c’è traccia del passato asburgico e guerriero di questi luoghi. Su tutto dominano gli enormi fabbricati degli alberghi, il grigio del calcestruzzo nudo, la ghiaia della roccia frantumata dalle ruspe. Non si vedono nemmeno gli sciatori, ma solo turisti che attraversano le spianate dei parcheggi deserti e conusmano in piedi gli hot-dog e il vin brulé dei chioschetti affacciati sulla strada.
L’ultima stagione gloriosa dello Stelvio, quella dello sci estivo, è esplosa nel secondo dopoguerra toccando il suo culmine negli anni ’80 per poi affrontare un declino inesorabile. Sembrano lontanissimi i tempi dell’infanzia di chi scrive, quando il Passo dava lavoro a un centinaio di maestri di sci, gli impianti correvano senza sosta verso il ghiacciaio e bisognava contendersi un posto letto negli alberghi Pirovano o Sertorelli (oggi in vendita). Di quegli anni baldanzosi rimangono oggi gli involucri di cemento, né antichi né moderni: semplicemente vecchi. O anche improbabili. Come il Ristorante Tibet che imita una torre tibetana, o il Rifugio Garibaldi la cui forma a castelletto, per quanto apocrifa (è degli anni ’60), domina piacevolmente la spianata e si apre a perdita d’occhio su una cordigliera di monti che invitano a camminare tra le nuvole.
… a Valdidentro
La discesa nel versante lombardo è più dolce. Nel primo tratto, all’altezza della deviazione per la Val Monastero, in Svizzera, si possono ancora ammirare i ruderi delle grandi cantoniere in pietra dove soggiornavano gli «stradieri». Se oggi è improponibile tenere aperta la strada nei mesi invernali, nell’Ottocento il valico si poteva percorrere tutto l’anno grazie al lavoro di questi montanari che, in condizioni oltre l’estremo e con la sola forza delle braccia, liberavano la carreggiata dopo ogni bufera. Di quegli antichi ricoveri sopravvive oggi l’Albergo IV^ Cantoniera, la cui struttura romantica saluta chi sale al Passo da Bormio.
Superati pochi tornanti, la strada si fa dritta e costeggia l’alta Valle del Braulio, una highland verdissima e fuori dal tempo, violata solo dai tralicci dell’alta tensione, nel cui centro sorgono i resti della terza cantoniera e l’annesso oratorio di San Ranieri (1830). Un monumento a obelisco ricorda i caduti della Grande Guerra. Manca ancora un ultimo, grande salto per raggiungere le frazioni alte di Valdidentro. La strada si getta nell’ampia gola scavata dal torrente Braulio e ne segue le acque, prima con larghi tornanti, poi costeggiando il precipizio attraverso gallerie umide e grezze. Dalla carreggiata si intravedono opere in caverna e bacini di raccolta per lo sfruttamento idroelettrico del corso d’acqua.
Occorre scendere molto per ritrovare i primi, timidi alberi e i primi fabbricati a valle, tra cui le celebri terme di Bormio, le «aquas Bormias siccativas» citate dall’erudito Cassiodoro, i cui Bagni Vecchi e Bagni Nuovi ricadono in realtà nel territorio comunale di Valdidentro. Qui, da questa parte del Passo, è tutto diverso. La Valtellina è più aperta e rocciosa, le foreste più rade e le architetture lontanissime dai masi altoatesini. Nei pochi chilometri del valico abbiamo percorso anni luce di storie e di culture, ma quella traversata oggi fin troppo comoda ci ha aiutato a capire come la montagna abbia coltivato nei millenni una diversità e una ricchezza che né la tecnica né gli imperi sono mai riusciti a cancellare.
Una strada sensazionale e panorami da lasciare senza fiato. Ho avuto il piacere di salirla in bici nel lontano 1995. Arrivai morto in cima, ma un buon radler e un panino con lo speck mi fecero risuscitare immediatamente!